Difendono i boschi, l’acqua, l’aria, la terra. Lottano in maniera pacifica contro le grandi multinazionali che invadono il loro territorio con miniere, maxi-impianti idroelettrici o colture intensive. Documentano e denunciano le ingiustizie, l’avvelenamento dei fiumi e delle falde acquifere, l’accaparramento illecito delle terre, i soprusi commessi dalle imprese che sfruttano la risorse naturali del loro Paese.
I difensori e le difensore dell’ambiente sono contadini e contadine, leader indigeni e indigene, attivisti e attiviste che – in maniera pacifica – si battono per proteggere la natura, per promuovere i diritti di tutti e tutte a vivere in un ambiente non inquinato, e per un modello di sviluppo sostenibile. A causa del loro impegno, spesso rischiano la vita.
Come dimostra il caso di Berta Cáceres e degli altri difensori/e dei diritti umani uccisi negli ultimi anni, proteggere la Madre Terra significa vivere costantemente sotto minaccia, essere attaccati e perseguitati. Secondo il rapporto di Front Line Defenders, nel 2016 sono stati uccisi 282 difensori/e dei diritti umani: di questi almeno la metà erano attivisti/e dell’ambiente e dei diritti dei popoli indigeni.
Nel report “They spoke truth to power and were murdered in cold blood” presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Relatore Speciale ONU per i Difensori/e dei Diritti Umani, Michel Forst scrive:
“Man mano che la domanda globale di risorse naturale cresce, l’ambiente sta diventando la nuova linea di fronte per i diritti umani e per il nostro futuro. In molti Paesi del mondo, gli attivisti/e e le comunità stanno facendo sentire le proprie voci per proteggere l’ambiente e promuovere modelli economici alternativi di sviluppo sostenibile, per non distruggere il pianeta. Per molti, questi attivisti sono dei veri e propri eroi, che difendono la nostra Terra e i nostri diritti. Non sono solo difensori/e dell’ambiente e della terra, sono difensori/e dei diritti umani. Ma i loro oppositori li demonizzano, definendoli anti-patriottici e accusandoli di essere contrari allo sviluppo”.
Esiste una forte correlazione tra l’aumento esponenziale delle aggressioni e omicidi mirati di attivisti e l’espansione delle frontiere estrattiviste in ogni parte del mondo. L’ONG Global Witness denuncia che nel 2015 sono stati uccisi 185 difensori della terra e dell’ambiente, in 16 Paesi: un aumento del 59% rispetto all’anno precedente, con una media di oltre 3 attivisti/e uccisi/e a settimana. Di questi, almeno 42 sono stati assassinati per essersi opposti ad attività minerarie o estrattive, 15 per la loro resistenza alle grandi dighe o per la protezione dell’acqua, 20 per opporsi all’agribusiness e 15 per le loro attività contro l’estrazione illegale di legname.
Esiste quindi un filo rosso che lega i nostri modelli di consumo e di sviluppo, fondati sull’estrazione crescente di risorse e valore dalla terra, e l’aggressione continua ai difensori/e dell’ambiente.
I difensori e le difensore dell’ambiente sono sempre più spesso trattati da criminali.“Terroristi di stile jihadista, una forma di insurgenza ideologizzata con forte componente religiosa”: questi sono i termini usati per descrivere i difensori dell’acqua di Standing Rock, che si oppongono alla costruzione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline (DAPL) sulle terre ancestrali del popolo Sioux, nel Nord Dakota. A fine maggio la rivista The Intercept ha reso pubbliche una serie di corrispondenze interne di un’agenzia privata di sicurezza, la TigerSwan, che ha lavorato con polizie di almeno cinque stati americani per contrastare con metodi di controterrorismo e contro-insurgenza le mobilitazioni contro la DAPL. I documenti contengono informazioni dettagliate sulle tattiche di sorveglianza, schedatura e collaborazione con le polizie locali e di stato. Proprio a Standing Rock si è mostrata con evidenza la deriva delle forze di polizia sempre più militarizzate e addestrate a tattiche di guerra contro la protesta e le mobilitazioni sociali. Non è un caso allora se TigerSwan abbia costruito un’immagine dei difensori dell’acqua che ricalca le strategie contro Daesh, una minaccia di lunga durata che giustificherebbe uno stato di emergenza continuo anche dopo la costruzione della DAPL. Anche ora, TigerSwan continua ad operare per conto della compagnia Energy Transfer Partners, e si sta occupando di altre mobilitazioni contro oleodotti e gasdotti che si stanno moltiplicando in tutto il Paese. Quello di Standing Rock non è un caso isolato, anzi replica un paradigma di criminalizzazione dei movimenti per la difesa della terra e dell’ambiente ormai diffuso a macchia d’olio in ogni parte del pianeta.
Un’emergenza che dev’essere affrontata al più presto, e in ogni occasione. A fronte della mancanza di determinazione e volontà politica della comunità internazionale di aggredire alla base le cause del cambiamento climatico (in primis la dipendenza da combustibili fossili) una delle possibili vie d’uscita sarà quella di rafforzare le mobilitazioni e vertenze dal basso. Bisogna riconoscere il ruolo centrale dei popoli indigeni nelle attività di adattamento e mitigazione: da secoli grazie alla loro conoscenza tradizionale riescono ad assicurare una gestione efficace delle risorse naturali. Attraverso le loro mobilitazioni e iniziative di resistenza all’invasione delle loro terre da parte delle imprese petrolifere e del fossile, contribuiscono a ridurre le emissioni di gas serra.
Anche in Europa e in Italia lo spazio di agibilità dei comitati e delle organizzazioni che lavorano per proteggere l’ambiente è sempre più ristretto.
La definizione di cantieri di infrastrutture strategiche come zone rosse, la militarizzazione del territorio, l’equiparazione di chi si oppone alle grandi opere a nemico dell’interesse nazionale, l’uso strumentale della legge per accusare chi informa di diffamazione, la delegittimazione: queste sono le strategie più ricorrenti. Vale la pena a tal riguardo ricordare l’importante sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli sulle Grandi Infrastrutture, e sulla criminalizzazione dei movimenti ambientalisti. Nella sua sentenza sui “Diritti Fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere. Dalla Tav alla realtà globale” emessa a Torino nel 2015, il Tribunale ha dichiarato che “il controllo militare del territorio nella zona del progetto di Val di Susa costituisce un uso sproporzionato della forza. In uno Stato democratico in tempo di pace, l’esercito non può intervenire su affari interni, limitando i diritti di cittadinanza garantiti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Convenzione europea dei diritti umani.”
Esiste un filo rosso che lega l’esperienza di Standing Rock a quella di chi si batte per proteggere il proprio ecosistema nel nostro “Sud”. Come dice Alberto Saldamando, avvocato per i diritti dei popoli indigeni per l’Indigenous Environmental Network : “Dobbiamo sostenere le comunità in resistenza ovunque nel mondo. Gli indigeni non hanno il monopolio delle connessioni spirituali con la terra. Anche chi in Italia lotta per proteggere ulivi secolari lo fa perché quegli ulivi sono stati curati per generazioni, esiste una relazione intrinseca con l’ecosistema, chi li protegge ha acquisito una profonda conoscenza generazione per generazione del proprio ambiente. Per questo noi non consideriamo la vittoria o la sconfitta come una prospettiva possibile. Noi guardiamo alla lotta, alla lotta spirituale, ci rivolgiamo alla Terra ed ai nostri antenati, questa è la nostra forza, possono fare qualsiasi cosa, militarizzare la nostra terra, metterci in galera, ma non ci fermeranno”.