Ad aprile dello scorso anno, il Relatore speciale Onu per i difensori dell’ambiente nell’ambito della Convenzione di Aarhus, Michel Forst, visitò l’Italia al fine di raccogliere informazioni su casi di criminalizzazione di attivisti e attiviste per la giustizia climatica e la difesa dell’ambiente. Forst si riunì con molte organizzazioni e movimenti e partecipò a un evento di Amnesty International e della Rete In Difesa Di, a Torino.
In seguito, venne pubblicato un primo rapporto sulla situazione dei difensori del clima in Europa, nel quale si denuncia una drammatica torsione repressiva contro attivisti ambientali che usano modalità di disobbedienza civile pacifica. La visita di Forst offrì lo spunto per la creazione di un gruppo di lavoro informale e trasversale facilitato dalla Rete In Difesa Di, che vede assieme realtà quali Amnesty International, Greenpeace, Osservatorio Repressione, Legal Team, Fridays for Future, Extinction Rebellion, Ultima Generazione, Per il Clima, Fuori dal Fossile, e avvocati e legali di movimenti quali No Tap e No Tav. Primo prodotto del lavoro collettivo è stato “Diritto, non crimine”, un dossier sulla criminalizzazione dell’attivismo ambientale e climatico nel paese. Il documento denuncia il ricorso a strumenti di diritto penale (lawfare) e civile per reprimere, disincentivare o criminalizzare chi oggi esercita il diritto sacrosanto a proteggere l’ambiente, e anche la salute dei cittadini, l’uso di fogli di via e Daspo che limitano la libertà di circolazione, la comminazione di multe ingenti mirate a inibire il diritto alla libertà di associazione. A ciò si accompagna l’adozione di leggi ad hoc, quali la “legge ecoattivisti” o il “decreto sicurezza”, attualmente in discussione in parlamento, che inasprisce le pene pecuniarie e prevede pene detentive per chi pratica blocchi stradali. Pratica riconosciuta come legittima dal Consiglio Onu per i diritti umani.
Per contro, nella realtà si verifica un divario tra direttive politiche e decisioni della magistratura, con accuse che cadono spesso in fase di dibattimento o vengono archiviate. Si calcola infatti che almeno il 60 per cento dei procedimenti penali si prescrive durante le indagini. In gran parte, il combinato disposto di tali misure, pur non portando a condanne definitive nel campo penale, si traduce in un chilling effect, ossia un disincentivo ad agire.
Ulteriormente aggravato da sanzioni pecuniarie spropositate che di fatto, assieme alle alte spese legali, mirano ad azzoppare la capacità di iniziativa delle associazioni e movimenti, pregiudicando il diritto alla liberà di associazione. Si constata, inoltre, come la repressione agisca su tre piani, attraverso la legge, l’uso della forza nel corso di azioni e manifestazioni e la delegittimazione da parte di alcuni media. Il dossier si conclude con una serie di richieste a governo e parlamento, che spaziano dal contrastare le narrazioni che criminalizzano, stigmatizzano o denigrano chi difende l’ambiente, riconoscere il diritto alla disobbedienza civile pacifica, non far ricorso a norme previste per la lotta al terrorismo o alla criminalità organizzata, assicurare che ogni misura legislativa sia in linea con gli standard internazionali in materia di difensori dei diritti umani e diritto alla liberà di associazione ed espressione.
Articolo a cura di Francesco Martone, Rete In Difesa Di, per il numero 4 del trimestrale I Amnesty.